Avevo ventinove anni, dieci anni fa.
Il sei aprile mi sono svegliato a casa, abitavo in un a zona semiperiferica di Roma, insieme ad un ragazzo del mio paese, studente di architettura e ad un altro originario della Puglia, studente di Storia dell’arte.
Di notte non mi sono svegliato.
Il ragazzo pugliese si alzò, questo me lo raccontò il giorno dopo, entrò in camera mia, entrò nella stanza dell’altro amico. Noi dormivamo, mentre la casa si muoveva.
Abitavamo ad un sesto piano, di un palazzo che soltanto dopo scoprii essere totalmente in cemento armato, tirato su da una ditta che costruiva ponti. Ogni piano poggiava sull’altro come tanti piccoli ponti in colonna. Questo rendeva, parole del mio amico architetto, la struttura a prova di bomba: oscillava, ma non sarebbe crollato mai, probabilmente. Che poi, a pensarci, noi eravamo a Roma e L’Aquila è a un centinaio di km di distanza, chissà se l’epicentro fosse stato sotto di noi, chissà se quel palazzo avrebbe retto.
Comunque, mi ricordo bene che il mio amico il giorno dopo mi raccontò che nel letto, mentre lui mi guardava dalla soglia, io mi muovevo tantissimo, “come se fossi scosso da tremori” mi disse. Come se stessi avvertendo qualcosa, pensai io. Tuttavia non mi svegliai.
La mattina mi sono alzato molto presto e il mio amico era sconvolto dalla paura e la tv accesa in salone fu il mio primo approccio al dramma.
Iniziai a fare telefonate, a casa, agli amici rimasti in paese. Fortunatamente tutti stavano bene, fortunatamente il mio paese , nonostante la vicinanza al capoluogo, non fu colpito troppo dal terremoto. Come fu nel 1918 per il terremoto di Avezzano, il mio paese fu risparmiato.
Ricordo una forte angoscia, la paura grande che qualcuno tra le persone amiche potesse essere morto.
Ricordo le urla le grida della gente, ricordo le immagini in tv.
Ricordo la voglia di tornare subito per essere presente. La voglia di dare una mano. O almeno così pensavo.
Al tempo c’era un mio amico e collega, che sapevo si occupava di psicologia dell’emergenza e l’ho chiamato per dargli la mia disponibilità. Parlò con una sua docente e lei disse che non poteva affidare a psicologi non esperti un lavoro così delicato. Dentro di me pensavo che qualcosa però dovevo pur fare, potevo pur fare! Chiamai un altro collega e gli dissi: “facciamo qualcosa”.
Sapevo che serviva “manovalanza” ad Avezzano, all’ospedale civile.
Andammo un sabato pomeriggio. Ricordo le psicologhe del reparto che erano sedute, a parlare tra loro. Ci videro, ci diedero un camice e ci misero in corsia. Senza spiegazioni, senza informazioni.
All’inizio pensavo che non avessero voglia di lavorare, un po’ come il grande cliché del lavoro all’italiana e mi sentii molto arrabbiato. Oggi, col senno di poi, penso ci potesse essere altro sotto quell’atteggiamento: stanchezza, fatica, angoscia, paura.
Ci assegnarono un corridoio e diverse stanze.
Due cose mi sono rimaste impresse nella mente:
Una ragazza, giovane, più o meno della nostra età. La incontrammo nei corridoi, ci venne incontro quasi correndo, affannata. Ci chiese aiuto per lei e per la sua famiglia. Parlammo un po’ lì, nel corridoio, tentammo di rassicurarla. Eravamo appena laureati, senza esperienza, solo con un tirocinio alle spalle. Facemmo del nostro meglio. Lei pianse, tanto.
Era lì perché i suo genitori erano ricoverati, erano stati coinvolti nel crollo dei palazzi.
Poi, un signore tra i cinquanta e i sessanta anni. Era sdraiato a letto. Scambiò il mio collega per suo figlio. Fu molto emozionante, quasi incredibile. Io e il mio amico non ci rendemmo conto di quello che stava succedendo. Mi ricordo però perfettamente di aver sentito, di aver provato, tantissima tenerezza e tantissima paura: che potevamo fare noi lì, in quella situazione? Oggi so che è la relazione , innanzitutto, il primo intervento di cura. Basta anche non dire nulla. La persona che ha bisogno può sentire vicinanza, può sentirsi accolta, ascoltata anche nel silenzio. Quest’uomo era sotto shock. In più aveva anche una diagnosi psichiatrica. Stemmo li per un po’. Il mio amico gli teneva la mano ed anche quell’uomo aveva un’espressione tra il terrorizzato, pensate un po’, e l’amorevole. Non so se si può dire così, amorevole. Era come se guardasse il mio collega tanto intensamente da volergli trasmettere tutto l’amore che un padre può trasmettere ad un figlio.
Non sapemmo mai che fine aveva fatto il figlio, se esisteva veramente o se era solo frutto della sua immaginazione.
Andammo via poco prima dell’ora di cena. In macchina e parlammo di quello che avevamo visto. Ci lamentammo dello scarso servizio di psicologia, ci lamentammo delle condizioni ospedaliere, ci lamentammo dell’ospedale. Ci lamentammo del terremoto.
Era complicato 10 anni fa. Era veramente complicato. Eravamo noi poco pronti. Per nulla pronti.
Non tornammo più in ospedale, un po’ perché ci dicevamo che dovevamo lavorare, un po’ perché non ci sentivamo capaci.
Dopo quell’esperienza io conclusi il mio tirocinio post universitario a giugno, rimasi all’interno dell’associazione con cui lavoravo per altri 2 o 3 mesi, a novembre feci l’esame di stato e diventai ufficialmente uno psicologo iscritto all’albo.
A dicembre decisi che non avrei fatto lo psicologo.
Troppi mostri dentro, mi dicevo, troppi mostri con la psicologia.
Non so se c’è una correlazione con quell’esperienza. Oggi penso che così tanto dolore, così tanta angoscia, così tanti morti, possano aver contributo al mio senso di inefficacia, al mio sentirmi non adatto, incapace a portare aiuto.
Avevo conosciuto quell’inverno dei ragazzi di un collettivo di L’Aquila e gli diedi tutta la mia disponibilità. Non ho fatto nulla.
La prima volta che sono tornato a L’Aquila è stato un anno dopo il terremoto. Ho pianto e mi sono detto che era colpa dello Stato, che era colpa dell’uomo, dell’avidità, dell’avarizia. Mi sono detto che era colpa mia perché non ci sono stato.
Oggi ho trentanove anni, faccio questo mestiere da quasi sette. Ho ripreso gli studi, mi sono diplomato in una scuola di Psicoterapia, sono uno Psicoterapeuta. Lavoro tutti i giorni con la morte, perché ho scelto di intraprendere un percorso di specializzazione, oltre al diploma, rispetto la malattia oncologica ed ho scelto di tornare sul mio territorio. Su quel territorio che è martoriato dalla malattia.
Se oggi tornasse il terremoto, sarei più pronto ad intervenire.
Oggi so che al tempo non ce l’ho fatta perché ho dato per scontato che la mia esperienza fosse sufficiente, che il mio studio fosse sufficiente. La verità, penso, è che nessuno può essere veramente pronto per una cosa del genere. Che nessuno può pensare di poter non fare i conti con quello che sono le conseguenze di un terremoto su una comunità.
Il terremoto di L’Aquila non ha colpito solo L’Aquila. Si è riversato con tutta la sua forza su tutto quello che era intorno a L’Aquila.
Ha colpito la Marsica, ha colpito l’Abruzzo, ha colpito l’Italia.
Ho letto ieri che durante la fiaccolata del venerdì erano presenti da Amatrice, dall’Emilia-Romagna, erano presenti gli altri luoghi colpiti da terremoti. Erano presenti gli altri luoghi colpiti da delle morti improvvise. Il modo migliore per affrontare il lutto è unirsi per stare insieme. È stare insieme per essere comunità. Per condividere il dolore.
Ed è questo che farò oggi che è sei aprile.
Oggi andrò a L’Aquila.
la foto è presa da qui