È passato un anno.
Il sei aprile dello scorso anno sono andato a L’Aquila. Era la prima volta.
Ci sono andato per ricordare, ci sono andato per commemorare.
Quest anno è diverso. Per tutti e tutto è diverso.
Ci hanno tolto la morte e ce l’hanno tolta per farci sopravvivere. Sembra un paradosso, ma è la realtà.
Quella realtà che entrerà nei libri di storia, che sarà oggetto di esami di Stato, quella storia che riproporremo a Natale ai nostri nipoti. Quel ricordo di fatica e dolore ma anche di resilienza e amore. Perché siamo fatti per ricostruire e la ricostruzione parte dalla passione generativa della creatività. E allora apriremo alla crescita, apriremo al nuovo, apriremo al bello.
Questo è quello che spero.
Nel mio viaggio a L’Aquila dello scorso sei aprile ho messo in mezzo molto della mia forza d’animo per riconoscere i miei limiti e poterli accettare. Ho iniziato un viaggio attraverso l’Abruzzo, le sferzate di vento gelido che smuovevano la macchina e le mie emozioni. Così, ho potuto darmi la possibilità di entrare in un mondo di dolore che si è rivelato un potente trampolino generativo.
Ho riconosciuto le lacrime delle persone accanto a me, strette in un abbraccio protettivo per il freddo che avanzava al calare del sole, come le mie. E quando mi sono dato la possibilità di accogliere la sofferenza per quello che era, mi sono liberato di un peso e l’ho lasciato accanto al letto, per non perderlo.
La mattina dopo mi sono alzato ed è stato bello vedere che quel dolore ancora c’era, non era scomparso, non se n’era andato via, era rimasto accanto a me tutta la notte. Ho avuto l’impressione che mi avesse vegliato e che fosse lì ad aspettarmi.
L’ho ripreso con me e non era più così pesante, non era più così insopportabile. Quando mi sono guardato allo specchio ho visto che insieme a quel dolore, dentro di me c’era un desiderio. Uno nuovo. Quello di fare pace, di fare pace con il ricordo, con i limiti, con le risorse, con i tradimenti, con le chiacchiere, con i fatti, con le speranze, con le possibilità.
Pace con la morte.
Come possibilità di restare e ricordare, o restare nel ricordo dei vivi.
Allora ho passato in rassegna i miei ricordi e le mie morti.
Lì ho capito che nessuno me le può portare via.
E l’ho capito anche ieri.
Quando ho acceso la candela sulla finestra, mi è tornata in mente la tradizione del 2 Novembre in Abruzzo. Quando i nonni dicevano di preparare la tavola con la colazione del giorno dopo, con quello che c’era, anche poco sarebbe bastato.
Bastato a chi?
Bastato ai nostri morti, che passando dalla finestra avrebbero visto l’abbondanza e sarebbero tornati indietro felici e non in pensiero per chi è rimasto, cioè noi.
Il valore della famiglia che questa storia racconta è il valore delle relazioni che oltrepassano la morte, è il valore di quella memoria che va oltre il classico rito esequiale.
Un rito di riscoperta di generazioni passate che tornano a preoccuparsi, che vuol dire mostrare cura e sollecitudine per un motivo, un fine ben preciso: stare vicino ai propri viventi e far sentire loro la presenza, immaginata certo, ma che porta gioia e possibilità di vivere e sostentarsi, ma anche godere e trovare piacere, attraverso un lauto pasto. Proprio come dicono le nonne, che sono contente quando sanno che noi nipoti mangiamo a sufficienza, così i nostri antenati possono essere felici quando vedono in quella tavola la possibilità di un degno pasto.
Tutto questo mi è, dunque, venuto in mente: che ci hanno rubato la morte, ci hanno rubato il rito di sepoltura, ma non ci hanno rubato e non ci potranno mai rubare la possibilità di ricordare.
Perché ricordare significa anche fare in modo che il dolore e la sofferenza che sembrano insopportabili tornino ad essere parte della vita. In un saliscendi tra una giornata buona ed una meno buona, dove tutto non diventa normale.
Non si torna alla normalità dopo un lutto, si cambia. Si può cambiare.
Questo è quello che possiamo riprenderci, è il regalo di chi ci lascia: attraversare il dolore per trovare una strada che porta al nuovo, al diverso, al migliore.
Oggi più che mai questo sembra vero: siamo in un periodo di dolore costante, di perdite che sembrano continue, di difficoltà ad immaginare di tornare indietro a quelli che eravamo.
Non lo potremo fare, non saremo più quelli di prima.
Avremo nuovi modi, nuovi tempi, nuovi riti. Li conquisteremo, insieme al ricordo di chi tutta la novità non potrà vederla, ma potremo raccontarla a chi verrà dopo e potremo mantenere il legame attivo e parte della nostra vita. Perché il dolore sarà sopportabile e potremo portarlo con noi, perché è una parte di noi.
Quindi, parliamo, accendiamo una candela alla finestra e salutiamo i nostri morti. Lasciamo che vedano la tavola pronta per il giorno successivo, facciamo in modo che siano felici per noi e che le preoccupazioni, quelle del futuro, si acquietino e si distillino in un ricordo doloroso che è necessario al fluire delle lacrime per imparare che possiamo permetterci di reimparare (anche) a respirare.
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non c’è una vera e propria bibliografia per queste riflessioni.
tutto ciò nasce dalle conversazioni con Maria Luisa de Luca sul lutto e la morte, dai libri di Ines Testoni, dalle canzoni di Giovanni Truppi e dalle tradizioni dell’Abruzzo nel giorno dei morti.